Pasolini oggi: Spunti di riflessione a partire da ‘Il Vangelo secondo Matteo’
‘Il Vangelo secondo Matteo’ di Pier Paolo Pasolini è stato proiettato al Cinema Grutli di Ginevra lo scorso 25 agosto, nell’ambito di una retrospettiva sui film culto degli anni ’60. (https://www.cinemas-du-grutli.ch/sites/default/grutli/documents/web_cinemagrutli_20240703_20240903_annees_60_a5.pdf)
Arrivato al Grutli, non sono stato sorpreso nel trovare la sala piena, con tanti giovani. Il film indubbiamente esercita ancora un certo fascino: vinse il Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia del 1964; nonostante gli isterismi che accompagnavano immancabilmente l’uscita delle opere di Pasolini, fu accolto benevolmente dall’Osservatore Romano, che riconobbe il “rispetto” con il quale il “marxista ateo” Pasolini si era avvicinato al Vangelo di Matteo. Peraltro, la dedica “Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII” aiuta a comprendere lo spirito con il quale Pasolini lavorò al film.
Riproduzione fedele dell’ordine cronologico degli eventi e del testo del Vangelo di Matteo, bianco e nero, attori non professionisti (compresa la madre Susanna Colussi nei panni di Maria che assiste all’uccisione del figlio Gesù, a testimonianza di una identificazione masochistica che si materializzerà tragicamente 11 anni dopo, al momento della morte di Pasolini). Ambientazioni nell’Italia meridionale – tra Basilicata, Puglia e Calabria – abiti ispirati a Piero della Francesca e alla pittura bizantina, lunghi primi piani di volti e carrellate di paesaggi. Musiche di Bach, Mozart, Webern, canzoni rivoluzionarie russe, spiritual americano e Missa Luba dal Congo. Combinazioni originali che producono un’atmosfera profondamente poetica e spirituale, per descrivere tuttavia un Cristo umanizzato, vittima ma allo stesso tempo rivoluzionario (“Non sono venuto a portare la pace ma la spada”) e castigatore dei mercanti del Tempio.
Il fascino del film non spiega, da solo, l’interesse che Pasolini suscita ancora oggi nell’immaginario collettivo, italiano e non solo, come intellettuale poliedrico, artista visionario, personalità complessa e provocatrice.
La modernità di Pasolini risiede innanzitutto nella sua solitudine. Un “marxista ateo” rinnegato dalla sinistra e odiato dai cattolici (a parte i commenti dell’Osservatore Romano in occasione dell’uscita de Il Vangelo). Quella stessa solitudine che continua ad affliggere le nostre società, nonostante (o forse a causa?) le connessioni permanenti nel villaggio globale.
La modernità di Pasolini sta anche nella poliedricità della sua opera: poeta, scrittore, sceneggiatore, regista. Lo sviluppo tecnologico costante che caratterizza i nostri tempi tende ad incoraggiare un approccio artistico basato su molteplici matrici espressive.
Ma la modernità di Pasolini, a mio avviso, si spiega soprattutto nell’aver compreso prima di tutti, avendoli per certi aspetti vissuti sulla sua pelle, i rischi derivanti dal progresso – nella sua dimensione economica, sociale, culturale, e perfino di costume – e dal consumismo sfrenato ad esso legato, in termini di alienazione delle classi popolari. Alienazione che ne facilita la manipolazione, fino alla messa in discussione dei valori fondanti della democrazia. Nel corso del processo per il film ‘La Ricotta’, Pasolini aveva dichiarato: “Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io con i miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene” (chissà se Giscard d’Estaing aveva letto questa dichiarazione prima del dibattito per il ballottaggio delle elezioni presidenziali in Francia nel maggio del 1974 quando, rivolto al candidato socialista Mitterrand, si era espresso in questi termini: “… vous n’avez pas, Monsieur Mitterrand, le monopole du cœur. Vous ne l’avez pas…”)
Da intellettuale libero, Pasolini aveva compreso che il culto del progresso unidirezionale, che relega la tradizione a inutile folklore e riduce l’essere umano a mero consumatore, lungi dall’affrancarlo, lo stava invece portando alla distruzione di sé stesso, della democrazia e della natura.