Questa lunga estate calda

Questa lunga estate calda

Improvvisamente fu piena estate, scriveva Hermann Hess. I colori si accendono (in ogni campo il papavero lampeggiava col suo rosso smagliante), la temperatura si alza, il caldo impregna le nostre giornate, il sole acceca i nostri pomeriggi. Non solo nei versi dei poeti, anche nei romanzi talvolta le pagine si aprono su estati caldissime, arroventate, su luoghi assolati, dove l’aria è immobile e il cielo terso. Mi viene in mente Io non ho paura, dello scrittore Niccolò Ammaniti, nelle cui prime pagine si legge che « quella maledetta estate del 1978 è rimasta famosa come una delle più calde del secolo. Il calore entrava nelle pietre, sbriciolava la terra, bruciava le piante e uccideva le bestie, infuocava le case. Quando prendevi i pomodori nell’orto, erano senza succo e le zucchine piccole e dure».

Il protagonista del libro, il piccolo Michele, commenta così l’afa delle giornate: «Non avevo idea di quanto faceva caldo, uno a nove anni, di gradi centigradi se ne intende poco, ma sapevo che non era normale».

Leggendo quelle pagine oggi, sembra di respirare la stessa atmosfera delle nostre estati calde. Siamo a luglio e ci stiamo preparando ad un’altra lunga estate: i fiumi e i laghi sono in secca, le temperature rimangono elevate di giorno e anche di notte. Da una parte all’altra dell’Italia amici e familiari mi scrivono per dirmi quanto fa caldo. Roma, Perugia, Torino, Bologna, Pescara, Firenze, Napoli: tutte le città sono roventi. Il bollino, dicono i giornali, è rosso, costantemente.  I giorni, anche durante quest’estate del 2023, saranno lunghi, le notti brevi e si cercherà un po’ di sollievo nel fresco della sera o della notte, o in riva al mare.

Fra le albe dell’Adriatico e i tramonti del Tirreno, ci scambieremo foto e messaggi. Il sole, a pelo d’acqua, si specchierà nei nostri mari; le albe saranno dorate e i tramonti infuocati e suggestivi. Mi tornano allora in mente le descrizioni che lo scrittore napoletano Giambattista Basile fa dei passaggi dalla Notte al Giorno o viceversa. Nel suo Cunto de li cunti – la celebre raccolta di favole scritta tra il terzo e il quarto decennio del Seicento –  per far capire che il tempo passa e che, durante la narrazione, la storia è scivolata al giorno seguente, Basile utilizza dei microracconti[1], delle brevi descrizioni che permettono al lettore di situare la narrazione e di intuire lo scorrere delle ore. Il Sole, la Luna, le Stelle, gli Astri dialogano fra di loro, si cedono il posto, invertendo i loro ruoli, e scandiscono il tempo fiabesco. Già Italo Calvino aveva proposto una mappa di queste metafore nel suo saggio Sulla fiaba. Così scriveva:  «Quasi ad ogni pagina il Pentamerone è illuminato da un’alba o da un’aurora. Si direbbe che per Basile il passaggio dalla notte al giorno (e così il suo inverso) faccia parte della punteggiatura, obbedisca ad una necessità sintattica e ritmica, serva a segnare una pausa e una ripresa, un punto e a capo. Ma mentre i segni d’interpunzione sono obbligati a ripetersi sempre uguali, le albe di Basile si manifestano sempre con una metafora diversa; a elencarle una dopo l’altra, potremmo mettere insieme una collezione ricchissima».

Il Cunto ci appare, così, come una lunga storia di intrattenimento (lo trattenemiento de  peccerille, si legge nel titolo), narrata fra diverse giornate, cinque per l’esattezza (da cui il termine Pentamerone):  il ciclo inarrestabile di giorni e di notti è lasciato ai dialoghi fra gli astri diurni e quelli notturni. Secondo Rak, la percezione del tempo e la sua descrizione può cambiare in base alla situazione: il tempo, proprio come una variabile della fisica, è  relativo e si contrae nell’azione come si dilata nell’attesa[2].

Abbiamo molti esempi all’interno del testo: troviamo il Giorno, con il sole e la luce, che, insieme, spazzano via la Notte e le sue ombre. Il sorgere del giorno è descritto come «l’Aurora che viene a vuotare il vaso da notte del suo vecchio, tutto pieno di renella rossa, alla finestra dell’Oriente» (I, 1, p.29)[3], il colore rosso, quindi, tinge l’orizzonte ad Est, lo accende, lo dipinge. Il Sole viene a prendere possesso dei «territori che gli aveva ceduto la notte» (I, 10, p.211) e, facendo questo, «con la scopa di rusco dei raggi [spazza] le ragnatele della notte» (I, 9, p.191). Altrove, «l’Alba era uscita per ungere le ruote del carro del Sole e, per la fatica del girare l’erba con la mazza nel mozzo della ruota, era arrossita come una mela vermigliona» (II, Apertura, p.279). Qui, sul volto dell’Alba, compare il color vermiglio: il rosso ha colorato le sue guance perché si è affaticata nel mettere olio nei meccanismi del carro solare. La colorazione vivida del mattino torna con l’immagine della coperta di damasco di colore rosso, che viene stesa dall’Alba per togliere le pulci della notte: è trascorsa la notte, sta per succedere qualcosa nel racconto, qualcosa di terribile, ma la narrazione si concede una pausa «prima che l’Alba [stenda] la sua rossa coperta di damasco sulla finestra d’Oriente per scrollarne le pulci»  (V, 7 p. 971).

Il giorno toglie l’oscurità della notte, allevia e addolcisce il lutto, scaccia le tenebre. Questa promessa di luce compare in varie favole e le metafore si moltiplicano: da una parte il sole toglie colore nero della notte, definito come lutto del cielo («se ne passò la notte in questo via vai – finché l’Aurora portò la notizia che il Sole era stato ritrovato vivo e si levarono i panni a lutto intorno al cielo», II, 3, p.317-319); dall’altra il sole, come un poliziotto, insegue le ombre notturne («Venuta la mattina – quando le ombre della Notte inseguite dagli sbirri del Sole lasciano il paese», I, 4, p.103). Il Sole è, in vari microracconti, come un pittore, che utilizza «i pennelli dei raggi [per] dipingere di chiaro le ombre della Notte» (V, 2, p. 903). La personificazione dell’astro nei panni di un artista è molto efficace: i pennelli vengono intinti nei colori del mattino.

Nel Cunto non solo i colori, anche gli animali scacciano le ombre della notte: si svegliano gli uccelli, che cantano con un suono che sembra quello di una tromba, frustando la Notte come se fosse un asino («al trombettìo degli uccelli il Sole frustò la Notte sull’asino delle ombre», III, 8, p. 593); c’è anche il gallo, la spia del Sole, che con il suo canto avvisa il padrone che l’ombra se ne sta andando, sta svanendo, è ormai debole (V, 2, p. 903). Il colore giallo vivo del canarino, che tutto il giorno canta in cielo,  è lo stesso del Sole («Incantati dal piacere se la presero con il Sole, stanco di aver fatto tutto il giorno il ballo del canarino nelle sale del cielo», III, Egloga ”La stufa”,  p. 651); i cavalli diurni guidano il carro del Sole, saltano nel cerchio dello Zodiaco, passeggiano nei pascoli diurni, non entrano nei prati della notte, «per non pagare l’affitto per quei pascoli delle ombre» (II, p. 287); quei cavalli sono rossi, contrapposti ai buoi bianchi della notte  (II, p. 289). Il Sole è anche un medico, il cielo è un ospedale, le stelle sono i malati che vengono scacciati di giorno dall’Astro  (II, 9, p.417).

L’Alba arriva, con la sua «esca della luce messa sull’amo d’oro pesca le ombre della Notte» (II, 4, p.327);  il color oro rimane nel cielo e lo illumina con pennellate di Sole, lo colora di chiaro, lo avvolge in colori caldi. L’oro che dipinge il cielo al mattino è un’esplosione di giallo, come quello delle ginestre; e infatti una scopa fatta di ginestre può allontanare i rifiuti del buio della notte: lo leggiamo in un altro microracconto di grande effetto, in cui il Sole «con la sua scopa di ginestre d’oro spazzò via le immondizie delle ombre dai campi bagnati dall’Alba» (II, 5, p.341). È lo stesso oro del bastoncino di Apollo, che ogni mattina «prega l’ombra di andare via» (V, 1, p. 891); ed è anche l’oro delle chiavi che il Sole, «troppo prodigo di luce» (II, 10, p. 429-431), tira fuori ogni mattina e mette sotto la porta ogni sera; l’astro semina «di luce d’oro i campi che l’Aurora aveva arato» (III, 9, p. 607), una luce preziosa che nutre la terra (III, 9, p. 607).

La personificazione del Sole come un artista, che dipinge, che usa il pennello torna in un’altra favola: Basile scrive, infatti, «non appena il Sole con i pennelli dei raggi venne a dipingere di chiaro le ombre della Notte» V, 2, p. 903).  Non solo oro e giallo, ma anche il colore verde entra in gioco, insieme ai mille colori dei fiori, nel mese  maggio, sotto il segno del Toro, quando il sole offre «in regalo alla Terra  […] una gonnella verde ricamata di fiori» (IV, 8, p.795).

Il Giorno lavora come un pittore: ma la pittura non è la sua unica arte, se ne intende anche di acqueforti e le imprime, separando luce ed ombra, chiaro e scuro, creando il contrasto di luce, proprio come avverrebbe durante il processo di stampa da una lastra di metallo. Il Sole è l’artista che arriva «con l’acquaforte per separare le ombre dalla luce» (V, 3, p.917). 

Abbiamo visto la tavolozza pittorica del Giorno e gli artifici narrativi che lo scrittore utilizza per dipingere l’aurora e il mattino, con gli astri diurni; vediamo ora quali pennellate di colore compaiono per descrivere la Notte. I colori sono simmetrici, spesso opposti a quelli del Giorno: se da una parte le pennellate diurne sono chiare, d’oro o bianche, dall’altra la Notte immerge la punta del pennello nei colori scuri, quando «tinge d’inchiostro la faccia del cielo che era ormai cotta dal Sole» (IV, 1 p. 673) o quando stende «i vestiti neri perché si preservassero dalle tarme» (II, 1, p.291). La Notte interviene, porta la pace, rasserena e toglie la luce con il suo mantello; di colore scuro è il riferimento ai funerali del Sole, che arrivano d’obbligo ogni sera, costringendo la notte «ad accendere le luci del catafalco del cielo» (II, 5, p. 345), e scure sono le ombre, di cui la Luna è maestra (IV, 5, 737), ombre che caratterizzano la Notte, in quanto ogni sera il sole chiude  «la bottega dei raggi per non vendere luce alle ombre» (II, 7, p.385) e spegne il lume perché ha «voglia di dormire sulle rive del fiume dell’India» (V, 4, p. 929). Il Sole si ritira per cambiarsi d’abito, e più precisamente la camicia (III, Egloga La stufa, p. 651) e la notte esce con «la maschera nera a guidare il ballo delle stelle» (V, 3, p. 921). Sempre a proposito di tinte scure, la Notte è come un conciatore di pelli, «un cuoiaio  [che] getta l’acqua della concia sulla pelle del cielo, che per questo diventa nera» (IV, 10, p. 843).

Con il beneficio dell’oscurità, la Notte «fa il palo ai ladri» e «viene aiutata a raccogliere i bagagli dei crepuscoli del cielo» (II, 5, p.341). L’oscurità favorisce incontri amorosi, suggeriti dall’immagine della Luna che «gioca a passera muta con le Stelle» (II, 1, p.289). La Notte è il regno delle tenebre, eppure non disdegna anche un particolare tipo di luce, più discreto: infatti la Notte è illuminata dalle stelle e dalla luna, e si rischiara grazie alla loro luce. Le stelle danno luce dal cielo e dalla terra le lucciole accendono il loro lume  (V, 3, p.917), entrambe – stelle e lucciole-  danno chiarore alla Notte da luoghi opposti; le stelle tremule sono paragonate a torce che ballano, che compaiono non appena il Sole si eclissa («cacciate al ballo della torcia le stelle», III, Egogla La stufa, p. 651); infine il cielo è paragonato ad una zeppola tagliata a metà dall’accetta dei raggi della luna quando quest’ultima si trova al centro della sfera celeste (I, 7, p.147). La Notte è scura, con la pelle nera e le tinte fosche, Basile la definisce  una negra turcaccia[4], che esce a giocare con le stelle («Quando uscì quella negra turcaccia della Notte a fare tubba catubba con le stelle», IV, 7,  p. 783)[5]. E non è un caso che Basile giochi con i colori scuri, il nero della pelle della turca e il riferimento alla tubba catubba : quest’ultima èuna danza moresca, una danza del sud, nota anche come sfessania, che rievoca, mimandole con danze e canti, le battaglie fra i mori e i cristiani[6].

Il Cunto è costellato di metafore, immagini che mutano, variazioni continue sullo stesso tema: sono i procedimenti con cui albe e i tramonti sono moltiplicati da Basile, in una narrazione che permette di passare da una favola all’altra, nella cornice dei cinquanta racconti. Così ne parla il critico Pietro Citati:

Meglio di ogni altro scrittore di fiabe, Giambattista Basile comprese il segreto della favola, il quale non consiste tanto nell’evocazione del meraviglioso e dell’impossibile, ma nella costruzione di un universo perfettamente geometrico, dove le azioni e le reazioni vengono ripetute con una astratta precisione. (…) Moltiplicò le albe e i tramonti: una fantasia metaforica, che aveva confini solo con i confini dell’uomo, si limitò e si costrinse in una formula, che venne variata all’infinito. Così abbiamo albe e tramonti realistici, picareschi, materialistici, poetici, giocosi, parodistici, teatrali, delicati, bellicosi, scurrili[7].

La luce sconfigge l’ombra, viceversa l’oscurità prende il posto del chiarore del giorno, in una rincorsa senza fine. Il lettore del Cunto percepisce un ritmo ripetuto e costante. Con il libro in mano, viene incalzato nella lettura, cerca l’Alba dopo la Notte e aspetta il tramonto dopo una lunga giornata.

Faremo così anche noi, davanti ai tramonti e alle aurore di questa lunga estate calda.


[1] Il termine microracconti viene utilizzato già da Michele Rak, studioso di Basile, il quale li analizza come  segue: «Il ciclo giorno/notte è descritto attraverso una serie di microracconti che hanno come argomento le baruffe del Sole e della Luna , delle Ombre e della Luce e dei loro amici: uccelli, boschi, pietre, fiumi, dèi» (M. Rak, “Corpi e altri piaceri” in L’occhio barocco. Dieci lezioni su immagini teatro e poesia da Napoli a Roma, Firenze e oltre, Duepunti, 2011, p.120).

[2] Otto giorni sembrano lunghissimi al re che attende il momento in cui potrà vedere attraverso il buco della serratura il dito della vecchia, che crede una fanciulla bellissima, e «conta i giorni, numera le notti, pesa le ore, misura i minuti, prende nota degli attimi e esamina accuratamente le particelle avute a cottimo per attendere il bene desiderato, pregando il sole di prendere qualche scorciatoia, scongiurando la notte di far sprofondare le tenebre e prendendosela con il Tempo che, per fargli dispetto, si era messo le stampelle e le scarpe di piombo» (C 1.10)» M. Rak, Logica della fiaba fate, orchi, gioco, corte, fortuna, viaggio, capriccio, metamorfosi, corpo, p. 110-112-113

[3] Utilizzo, per le citazioni, la traduzione del Cunto curata da Michele Rak (Basile, Lo cunto de li cunti, traduzione italiana di Michele Rak, Garzanti, 1999). Per indicare la giornata troviamo i numeri ordinali; per la fiaba il numero cardinale.

[4] Ricordiamo che nel racconto cornice del Cunto (come anche nella fiaba di Zoza) la schiava africana è chiamata indifferentemente «mora» o «turchesca».

[5] Nella traduzione del Cunto fatta da Benedetto, troviamo « quella nera schiava della notte uscì a fare tubba-catubba con le stelle» (G. B. Basile, Il Pentamerone ossia La Fiaba delle fiabe, tradotta napoletano e corredata di note storiche da B. Croe, Bari, 1925). Il Basile usa il napoletano negra cargiumma de la Notte, dove cargiumma  è un antico e desuetovocabolo di chiaro carattere dispregiativo, traducibile con moro, africano, negro, turco, persiano o  comunque individuo  di pelle scura.

[6] La danza è nota anche nel napoletano. Il testo delle moresche vocali è costituito da vivaci e lascivi dialoghi ο monologhi di schiave negre, interpretate da una certa Lucia, ma anche dalle sue colleghe Giorgia, Martina, Catalina, Patalena, Carciofola:  tutte si esprimono in un curioso linguaggio, basato su un dialetto napoletano storpiato, intriso di onomatopee, di parole di un gergo incomprensibile, di pretesa origine africana.

[7] Pietro Citati, La luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo, Mondadori, 1996, p. 326.

Federica Rossi

Federica Rossi

Federica ROSSI è docente di didattica dell'italiano presso l’Institut Universitaire de formation des enseignants dell’Università di Ginevra; è responsabile, dal 2009, della formazione degli insegnanti d’italiano del Cantone di Ginevra e referente, dal 2012, per la formazione degli insegnanti di storia dell'arte, di musica e di latino. Nata a Perugia, dopo la Laurea in Lettere si è trasferita a Ginevra per specializzarsi prima in linguistica (grazie ad una borsa di studio del Ministero degli Affari Esteri) e poi in studi europei, menzione Cultures et sociétés (grazie ad una borsa dell’Institut Européeen de l’Université de Genève, attualmente Global Studies Institute). Dal 2001 al 2007 è stata assistente di Lingua e Letteratura italiana presso l’Università di Neuchâtel e si è occupata delle relazioni fra Luigi Pirandello e il cinema; ha partecipato, in seguito, alla creazione della Formation continue L'Italie langue culture et société dell'Università di Ginevra, della cui coordinazione si è occupata dal 2008 al 2022. A Ginevra, dal 2012, dirige l’esame di Certificazione CILS (Certificato italiano come lingua straniera); dal 2017 è presidente dell'Associazione ARI@ch (Ricercatrici e ricercatori italiani in Svizzera). I suoi ambiti di ricerca sono i linguaggi settoriali e il lessico specialistico, le relazioni fra letteratura e cinema, la letteratura del XX e XXI secolo, la pittura del Rinascimento. Pubblica regolarmente articoli sulla narrativa contemporanea (in particolare le storie familiari di narratrici italiane) ed è autrice di una raccolta di racconti, La voce degli alberi (ed. Edimond). Gestisce un canale youtube dove pubblica alcune delle sue conferenze (Effelingua https://www.youtube.com/channel/UCC6BlhIoj3H3gRlnqB0MBBg).

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