Le linee rosse della guerra.

Le linee rosse della guerra.

Prima di iniziare a leggere, ricordate geograficamente quali sono gli stati Nato che confinano con la Russia continentale: Norvegia a nord, Estonia e Lettonia nella regione baltica, USA nel Mare di Barents, Polonia e Lituania confinano con Kaliningrad, un’exclave russa nel Baltico.

Nel momento in cui scriviamo le notizie continuano a succedersi velocemente, rimarcando i contorni di scenari plurimi ognuno a sua volta ricco di possibili ulteriori sviluppi. Mentre la diplomazia gioca su più tavoli, e mentre lo spostamento di truppe non può che rappresentare il tutto ed il suo contrario, la nebbia della guerra avvolge i panorami ucraini e si illumina dei bagliori degli scambi di artiglieria.

Mentre l’Europa, considerata debole e divisa, e che è tenuta in posizione marginale dalla diplomazia di lungo corso del Cremlino, si chiede se la Russia abbia ormai preso la via orientale che volge a Pechino, insorge la scuola della realpolitik che rimarca la necessità di una revisione strategica, alla stessa stregua di quella che portò gli USA di Nixon e Kissinger ad aprire alla Cina maoista. Mentre la NATO ha trovato ragion d’essere in una costante drang nach osten, Mosca ha combattuto il senso di insicurezza creato dagli occidentali assumendo un ruolo di security provider pronto a soccorrere regimi amici in Asia Centrale, Medio Oriente, Mediterraneo.

Realisticamente, l’Orso russo ambisce alla rigenerazione di uno spazio di sicurezza ed influenza affine ma non uguale a quello sovietico, cosa che relegherebbe ad uno stato di perenne incertezza l’area baltica; rispetto all’era della falce e martello, l’autocratico Putin non è un nostalgico delle ideologie, è circondato di ricchi oligarchi, è un alleato della Chiesa ortodossa, si ricollega ad una continuità geopolitica che lo avvicina agli Zar, e che gli ricorda il peso della forza finanziaria, ancorata ad un’economia che stenta a diversificarsi, e che a dicembre ha visto innalzare i tassi di interesse di 100 punti base fino all’8,5%, una scelta che si spiega con l’inflazione e con la dipendenza dei principali settori industriali dall’import estero.

Putin è un maestro della maskirowka

Ossia, del camuffamento come il Capo di Stato Maggiore, Generale Gerasimov lo è della predvidenie, la capacità di prevedere; a Mosca, come a Pechino, al momento, dopo gli attuali leader c’è solo il diluvio, nessun passaggio di consegne: la combattuta democrazia occidentale deve giocoforza trattare con l’abile autocrazia orientale che ha già da tempo tracciato le sue invalicabili linee rosse. Mentre il Foreign Office evoca i negoziati di Monaco 1938, la Russia sembra più puntare ad un logoramento protratto; l’Ucraina, che è l’area cuscinetto che protegge i confini sudoccidentali russi, di fatto, è lacerata da contemporanee possibilità ed improbabilità: un difficile assalto frontale, o più probabili incursioni nelle zone russofone per cui la Duma ha chiesto il riconoscimento politico. Inevitabile tornare con il ricordo all’efficacissimo effetto prodotto dagli omini verdi senza alcuna insegna distintiva nelle aree di Donbass e Crimea. Non si va tanto lontano dai desideri del Cremlino immaginando l’aspirazione ad una nuova Yalta, capace di restituire dignità ed importanza ad un Paese che, in questi ultimi anni, ha vissuto la sua politica estera come nel 1918 l’ha subita la diplomazia tedesca a Versailles.

Sul filo del rasoio

Tra le forze russe ed il Donbass lo spazio è labilissimo, il casus belli incombente; un po’ come l’improvvido arciere che scocca il suo dardo, prima dell’ordine, scatenando la battaglia del Fosso di Helm. Perché ora? Perché gli USA, timorosi di perdere Taiwan, sono concentrati su Indo Pacifico e nucleare iraniano; perché il Presidente Biden incarna l’immagine di una preoccupante debolezza cui addebitare le incertezze sul Nord Stream 2 e la debacle afghana; perché potrebbe non esserci più il tempo di invertire la tendenza occidentaleggiante di Kiev; perché l’annessione della Crimea non ha registrato reazioni sostanziali da un Ovest alle prese con gli esiti di discutibili politiche energetiche che lo hanno gettato tra le braccia di Gazprom[1] anche grazie all’azione tedesca, espressione di un governo che ha optato, come aiuti, per l’invio di 5.000 elmetti[2]; il cuneo del gas ha allontanato l’Europa dagli USA, con la successiva disarticolazione della Nato. Se Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia, ha accusato Mosca di ridurre intenzionalmente le forniture di gas, le cancellerie europee hanno evidenziato un errore di fondo: credere di potersi relazionare con Mosca da una posizione privilegiata imponendo contratti a breve termine, dimenticando che è sempre il detentore del bene a condurre il gioco.  

E gli USA?

A negoziare con il Qatar, meditando sull’ennesimo inciampo politico di cui sono parte in causa. Non ci sono vie d’uscita, se non una finlandizzazione di Kiev, obbligata a rimanere fuori da Nato e UE, una linea che, molto probabilmente Washington ha valutato con un’accettazione de facto e non de jure, altrimenti impossibile da rivedere, anche perché questo non impedirebbe all’Ucraina di gestire una sua eventuale (e difficile) neutralità, poco auspicabile da Mosca. Va anche detto che la politica americana di queste ultime settimane, più che aiutarla, ha reso Kiev più debole e quanto mai vicina all’immagine di un Paese prossimo alla fine. Se Washington intendeva supportare l’Ucraina e confortare l’est europeo, possiamo dire che non ha raggiunto il suo obiettivo: una ritirata per quanto onorevole fiaccherebbe irreparabilmente la sua credibilità, mentre la Russia interpreterebbe il ruolo di chi, pur non intendendo combattere, fa sapere di poterselo permettere. Secondo Sergey Karaganov, teorico politico russo, la spina dorsale del Paese è integra, dunque non può esserci una Russia stabile, fino a quando Mosca non riterrà le sue richieste esaudite. Ma in termini di revival, quanto potrebbe esserci di afghano 1979 in un’impresa in Ucraina?

Quanto potrebbe essere corta, ad oggi, la coperta strategica di Putin tra Ucraina, Bielorussia e Kazakistan? Quel che traspare è la consapevolezza russa di poter essere prossimi ad affrontare un periodo durissimo ma comunque accettabile a fronte degli interessi nazionali da tutelare. In questi termini, qual è il vero piano americano, ammesso che ce ne sia uno, oltre all’aumento del budget per la difesa ed alla valutazione di sanzioni economiche particolarmente pesanti che non risparmierebbero neanche gli europei? Al momento la Russia provoca, l’America morde il freno, la Francia negozia, la Germania non prende posizione, l’UE è non pervenuta, le NU sono semplicemente scomparse, l’Italia è in affanno, la Cina attende, riluttante ad intervenire viste le diverse strategie. Non a caso, nel comunicato congiunto redatto al termine dell’incontro tra Putin e Xi Jinping, non si parla di Ucraina, ma della contrarietà cinese ad allargamenti Nato ad est.

La chiave di volta russa

L’Ucraina, in sintesi, è divenuta la chiave di volta russa per intaccare la stabilità dell’Alleanza Atlantica nell’Europa centro orientale, quanto mai bisognosa di una vera politica europea purtroppo assente, ed ascoltata invece dai due Paesi che, nell’area, più forte avvertono il ritorno russo: Svezia e Finlandia. In conclusione, visto che ad ovest ancora ci si domanda chi vorrebbe morire per Kiev, e che una guerra su larga scala comunque impegnerebbe pesantemente anche Mosca, non si può non escludere un conflitto, ibrido e convenzionale, localizzato nelle aree separatiste. Del resto l’opzione militare non è mai stata negata dal ministro Lavrov. E ci saranno ripercussioni considerevoli: nelle relazioni sino americane, nella politica futura che verrà tacciata di inanità per le mancate decisioni, nella considerazione di un mondo, quello occidentale, sempre più votato a disconoscere i sui valori fondanti. Sotto quest’ottica ci si chiede cosa potrebbe accadere per eventi analoghi in Medio Oriente con protagonista Israele, o nell’Indo Pacifico con Taiwan. George Kennan con il suo lungo telegramma e Harry Truman con la sua dottrina di contenimento sono ormai fantasmi del passato.  


[1] Nel suo consiglio d’amministrazione ha seduto a lungo  Gerhard Schröder, ex cancelliere tedesco

[2] Vitali Klitschko, sindaco di Kiev, ha qualificato la notizia come uno scherzo, domandandosi se l’aiuto successivo non fosse consistito in cuscino.

Gino Lanzara

Gino Lanzara, romano del '65, Ufficiale MM, laureato in management e comunicazione d'impresa e scienze diplomatiche e strategiche, è specializzato in analisi geopolitica e sicurezza, ed ha pubblicato un saggio sulla guerra economica. Specializzato sull'area MENA, collabora con testate online sempre in tema geopolitico.

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