Afghanistan, le missioni internazionali e il ruolo dell’Italia. Intervista al Generale Battisti (seconda parte)

Afghanistan, le missioni internazionali e il ruolo dell’Italia. Intervista al Generale Battisti (seconda parte)

Ecco la seconda parte dell’intervista realizzata da Paolo Quercia al Generale del Corpo di Armata Giorgio Battisti.

La prima parte dell’intervista la trovate qui:

  1. Quali ripercussioni possono nascere sul jihadismo globale dalla presa del potere dei Talebani a Kabul? Lei condivide la tesi di chi pensa che i Talebani potranno in qualche modo tornare utili nella lotta al terrorismo globale? 

Non ritengo che i Talebani possano impegnarsi nella lotta al terrorismo transnazionale, Anche se il Pentagono ha affermato che potrebbe collaborare in tal senso. I periodici rapporti del UN Analytical Support and Sanctions Monitoring Team, dedito al monitoraggio dei gruppi terroristici nel mondo, ed altri siti specializzati confermano lo stretto legame – per i reciproci benefici – tra al-Qaida e i Talebani (rifornimenti, supporto reciproco e addestramento in cambio di protezione) che non è mai venuto meno in questi ultimi anni. Tali rapporti riportano che in Afghanistan è presente la senior leadership di Al-Qaida (in the Indian Subcontinent) e sono attivi in diverse province, prevalentemente lungo il confine con il Pakistan, circa 400 – 600 combattenti del gruppo terroristico.

Gli stessi documenti sottolineano sia che i Talebani hanno regolarmente consultato al-Qaida durante i negoziati con gli USA sia che hanno offerto loro garanzie di onorare il loro storico legame. L’Haqqani Network, espressione diretta di al-Qaida, è uno degli storici alleati dei Talebani ed è quello considerato il più efficace gruppo nella condotta degli attacchi terroristici. I sanguinosi attacchi avvenuti in Kabul negli ultimi anni sino a quello del 25 marzo 2020 al tempio Sikh, solo per citare i più devastanti, secondo fonti di intelligence afghane sarebbero stati effettuati proprio da questa formazione.

Da sottolineare che in Afghanistan sono presenti 21 gruppi terroristici quasi tutti localizzati nelle zone al confine con il Pakistan, comprese le formazioni jihadiste delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia.

Non tutti questi gruppi terroristici hanno priorità d’azione e obiettivi comuni e condivisi, non è da escludere, come già avvenuto in passato, infiltrazioni e attacchi all’esterno del Paese. Resta da capire l’atteggiamento di supporto o meno verso i musulmani cinesi di etnia Uiguri che risultano vessati da Pechino.

  • Veniamo al ruolo degli italiani. In cosa abbiamo brillato nella nostra presenza militare e civile in Afghanistan in questi venti anni? Di cosa dobbiamo essere fieri?

L’impegno internazionale, come quello italiano, non è stato del tutto superfluo anche se non ha soddisfatto tutte le aspettative, forse troppo ambiziose e non sempre pertinenti, da parte della Comunità Internazionale. In questi vent’anni la società afghana, pur con mille difficoltà, si è sviluppata in tutti i settori, tenendo anche conto delle condizioni del 2001. Un processo visibile e inconfutabile che difficilmente potrà essere represso del tutto. Cito solo alcuni dati. Oltre 9 milioni di bambini vanno attualmente alle scuole elementari (40% ragazze – 3,5 milioni); 300.000 studenti frequentano l’università (100.000 ragazze), nonostante il numero e la frequenza degli attacchi terroristici in tutto il Paese rivolti alle scuole, insegnanti e studenti; gli attacchi e le minacce condizionano tuttavia sempre di più la frequenza scolastica (3,7 milioni di ragazzi non possono andare a scuola e di questi oltre il 60% sono ragazze). In questi anni sono stati costruiti 4.500 edifici scolastici e formati più di 200.000 insegnanti dei quali oltre il 30% donne. Nel 2001 solo 1 milione di ragazzi (e poche migliaia di ragazze) si recavano a scuola. L’80% della popolazione possiede un cellulare; il 66% un televisore e il 18% usa internet, con maggiore sviluppo nella regione centrale di Kabul (26%), nel sud-est (18%).

Sono attive 45 stazioni radio, 75 canali televisivi, agenzie di stampa e centinaia di pubblicazioni, inclusi 7 quotidiani. A Kabul sono presenti 16 istituti bancari e sono state costruite oltre 33.000 km di strade asfaltate (2.500 km nel 2001), la più importante autostrada del Paese, la cosiddetta Highway 1 o Ring Road, che unisce le grandi città di Mazar-e Sharif, Kabul, Ghazni, Kandahar e Herat è completata al 90%.  Anche il settore della salute pubblica ha visto un sensibile miglioramento negli ultimi anni. Circa il 90% della popolazione ha accesso all’assistenza sanitaria di base, a fronte del solo 9% nel 2001. La mortalità materna è diminuita del 15% e quella infantile del 35%, grazie anche alle circa 1.700 ostetriche professionali che forniscono assistenza al parto. Oltre il 61% della popolazione ha accesso all’acqua potabile. Un grande risultato è stato soprattutto raggiunto: far conoscere agli Afghani, e ai giovani in particolare (oltre il 50% della popolazione ha meno di trent’anni), altre realtà socio-culturali che possano offrire, se non modelli di riferimento, esempi e stimoli per lottare per la propria libertà e democrazia.

  • Ed in cosa abbiamo peccato, o cosa non abbiamo potuto fare adeguatamente per mancanza di risorse o per la presenza di vincoli politici? 

I contingenti occidentali, tra cui l’Italia, non hanno potuto utilizzare appieno le capacità dei mezzi a disposizione in quanto limitati dalle direttive politiche, spesso frutto di motivazioni ideologiche o dal timore di fornire alla opinione pubblica nazionale un’immagine troppo aggressiva della propria presenza. Un atteggiamento che ha portato a coniare la frase “NATO: Not Action Talk Only”.

Seguendo le regole prevalenti del politicamente corretto, governanti e società civile occidentale hanno fatto sempre più ricorso a eufemismi tesi ad ammorbidire la spiacevole realtà della guerra. Il nemico non si uccide: si neutralizza; le vittime civili diventano un danno collaterale. Spesso mutuate dall’inglese, definizioni che sottintendono varie forme di operazioni, come peacekeeping, peace-enforcement o nation-building, perdono apparentemente aggressività e divengono ben accette agli occhi del pubblico civile e dei mass media. Ed ecco, dunque, elicotteri per l’evacuazione sanitaria che non potevano volare di notte, seppur attrezzati, velivoli da combattimento che non potevano condurre azioni di supporto di fuoco alle unità a terra e limitavano i loro compiti alla sola ricognizione aerea e/o alla distruzione delle antenne per le comunicazioni dei Talebani, mentre l’uso delle armi di bordo era autorizzato esclusivamente per autodifesa (i Talebani avevano per caso un’aeronautica?).

Ciò comportava di dover richiedere il supporto aereo ad altri contingenti che non avevano questi (piuttosto ipocriti) condizionamenti, con il rischio di non ottenere in tempo il concorso e subire perdite che altrimenti non si sarebbero verificate (oltre a maturare una pessima reputazione in ambito coalizione).

  • Non pensa che l’approccio degli Usa e della NATO alla società afghana sia stato troppo semplicistico, mancante cioè di profondità storica e culturale, insomma di tridimensionalità? Non abbiamo forse vinto le battaglie militari sul terreno, ma abbiamo perso quella più importanti, quella per lo human terrain?  

Non sempre hanno funzionato i metodi impiegati nella ricostruzione del Paese (nation building) in quanto chi è intervenuto riteneva di sapere meglio della popolazione cosa servisse loro in termini di governance e modelli socio-economici. Non bastava aver letto “Il Cacciatore di Aquiloni” (Kite Runner) sull’aereo per poter presuntivamente credere di essere un esperto dell’Afghanistan!

La convinzione – anche ispirata dalle migliori intenzioni – che l’introduzione più o meno forzata di riforme democratiche potesse proteggere la popolazione, vincere “i cuori e le menti” e sconfiggere l’insorgenza è stata percepita come un’imposizione di un sistema estraneo alla cultura afghana e distante dalla sua realtà. Cercare di promuovere dall’esterno la democratizzazione, ignorando che non bastano le istituzioni democratiche per “generare” democrazia in culture che, qualunque siano i loro meriti, non hanno una società civile di modello occidentale, ha provocato in passato la caduta di alleati fidati, come lo Shah dell’Iran o il Presidente del Vietnam del Sud Ngo Dinh Diem, ed ha agevolato l’instaurazione di regimi ostili e ancora più autoritari. È questo il risultato di un approccio etnocentrico, che privilegia i valori della cultura occidentale per analizzare le altre culture, in particolare le più lontane, e che considera tali valori come universali.

  • Mi passi la battuta: qualche gender advisor in meno e qualche antropologo in più le avrebbe fatto comodo?

Indubbiamente la maggiore disponibilità di antropologi avrebbe fatto sicuramente comodo rispetto ai gender advisor che sono talvolta imposti quale frutto della moda del momento. La dimensione umana è la vera essenza degli scenari tipici delle COIN.

Capire le realtà culturali locali, politiche, sociali, economiche e religiose è cruciale nella condotta delle operazioni di counterinsurgency e riveste un ruolo di primaria importanza per il successo della missione. Informazioni relative ai gruppi sociali ed ai loro interessi, alle religioni professate, ai principali esponenti, alle guide ed ai comportamenti di gruppo sono necessarie per condurre efficaci operazioni di controguerriglia (cultural awareness).

Le ricerche della scienza sociale relative alla popolazione di una nazione scenario di un’insurrezione rappresentano la conoscenza di base riferita ad una sorta di “terreno umano” o, più precisamente, all’elemento dell’ambiente operativo che abbraccia trasversalmente le realtà culturali, sociologiche, politiche ed economiche della popolazione locale.

Tale realtà ha portato a coniare in ambito dottrinale militare USA il termine “Human Terrain”.

Ciò ha indotto le Forze Armate statunitensi a sviluppare un programma, lo “Human Terrain System”, che prevedeva il dispiegamento in operazioni di sociologi e antropologi (HHT – Human Terrain Team) in supporto alle unità sul terreno per “rompere il muro” d’incomunicabilità con i civili del luogo, per comprenderne la psicologia e le problematiche che ne governano la vita.

  • Quale poteva essere invece una ricetta per creare maggiore consenso attorno alla presenza occidentale?

 Il confronto dovrebbe essere incentrato sulla ricerca della legittimazione: la “ricetta” per ottenere il consenso si basa prevalentemente sulla percezione soggettiva della popolazione, e non su elementi oggettivi come la democrazia o lo stato di diritto, la quale deve essere coinvolta come “attore chiave” nel processo di cambiamento piuttosto che come un “soggetto terzo” o un “premio da vincere” attraverso le attività di conquista “dei cuori e delle menti”. Lo storico militare Max Boot nel suo libro Invisible Armies An Epic History of Guerilla Warfare from Ancient Times to the Present (2013), che ripercorre in modo approfondito e dettagliato la storia della guerriglia dalle origini ai giorni nostri, ha evidenziato che le population-centric counterinsurgency (più conosciute come winning hearts and minds) hanno avuto un essenziale ruolo nell’ottenere il successo nelle campagne di contro-insurrezione. I vertici politici e diplomatici delle missioni, sia per limiti conoscitivi sia per la difficoltà di interagire con l’elemento locale, o per buona fede, hanno teso ad appoggiarsi alle élite economiche e intellettuali di formazione cosmopolita maggiormente propense a sposare modelli occidentali, trascurando la circostanza di non poco conto che una élite non è rappresentativa della società.

Occorre, invece, conoscere il territorio, la cultura e la storia, gli usi e costumi del Paese, capire cosa intendono le popolazioni quando chiedono maggiore sicurezza: potrebbe significare solo “poter andare al pozzo per prendere l’acqua, mandare i figli a scuola, poter essere curati, ecc.”.

Ciò richiede forze di sicurezza locali con una forte motivazione per la causa e pieno riconoscimento da parte della propria società, ma anche un esteso impegno civile per stabilire un nuovo sistema di governance, di giustizia e di gestione socio-economica, che deve includere anche il reclutamento e la formazione dei dipendenti pubblici.

  • A questo proposito vorrei citarle Lawrence d’Arabia. In un suo famoso testo “The 27 Articles” pubblicato nel 1917 su “The Arab Bullettin”, egli offriva i suoi insegnamenti al governo inglese su come conseguire una leadership sulle questioni militari in Medio Oriente. Nel breve testo scrive tra l’altro: “do not try to do too much with your own hands. Better the Arabs do it tolerably than you do it perfectly. It is their war, and you are to help them, not to win it for them. Actually, also, under the very conditions of Arabia, your practical work will not be as good as, perhaps, you think it is.” Cosa ne pensa? Sarebbe un insegnamento ancora utile nelle odierne operazioni di counter-insurgency?

Il Generale russo Makhmut Garayev (1923 – 2019), ultimo consigliere militare del Presidente Najibullah della Repubblica Democratica dell’Afghanistan (1989 – 1992), ha affermato: bisogna prendere gli Afghani per quello che sono e non come noi vorremmo che fossero.

Sarebbe stato sicuramente più redditizio valorizzare le loro innate doti combattive di guerrieri più temibili dell’Asia Centrale; del resto i Talebani, anche loro Afghani, combattono secondo questi tradizionali schemi. Le forze locali conoscono il territorio, il modo di pensare e di agire dell’avversario, comprendono meglio gli usi e costumi della popolazione e le sfumature sociali e tribali (quello che è chiamato “human terrain”).

Bastava ricordarsi delle esperienze del passato (a cosa servono le lezioni apprese?). I Sovietici si fidavano quasi esclusivamente delle unità Sarandoy, forze di polizia specializzate in controinsorgenza, organizzate militarmente e dipendenti gerarchicamente dal Ministero dell’Interno.

Nella 3a guerra anglo-afghana (1919), combattuta sul confine dell’allora impero anglo-indiano (ora Pakistan), le formazioni tribali si dimostrarono più combattive dell’esercito regolare.

Più recentemente, le unità di Commando afghane, che operavano secondo le modalità dei guerriglieri, erano le forze più capaci e temute dagli avversari e più apprezzate dalla NATO.

Nella confusa operazione di agosto 2021 di evacuazione degli occidentali e dei collaboratori afghani dall’aeroporto di Kabul la prima linea di protezione dello scalo internazionale era garantita da due reparti di circa 400 uomini della NDS (National Directorate of Security), a dimostrazione della fiducia riposta in questa speciale forza di polizia.

  • Ma vi erano in Afghanistan individui sufficientemente preparati da poter rappresentate la classe dirigente del nuovo Stato post-talebano?

Purtroppo, non sempre è stato possibile disporre di individui con un buon livello culturale, in quanto le organizzazioni governative e non governative straniere hanno reclutano la maggioranza delle persone che conoscevano le lingue straniere, con retribuzioni decisamente superiori a quelle di un dipendente pubblico. Di conseguenza a lavorare nella pubblica amministrazione rimanevano (e rimangono) spesso i meno qualificati.

  • Che ruolo ha giocato in tutto ciò la corruzione?

La corruzione è il problema principale dell’Afghanistan in quanto, inficiando la fiducia della popolazione nell’apparato istituzionale, ne mette a rischio la sua stabilità.

Il contrasto a tali condotte illecite non ha mai ottenuto i risultati desiderati, malgrado gli ultimi governi afghani abbiano cercato di arginare il fenomeno che rappresenta un malcostume endemico in tutti gli strati della società: un “modello relazionale” non percepito, sino ad un certo limite, come un aspetto negativo da osteggiare.

Un problema dovuto anche alla Comunità Internazionale che non sempre ha controllato (o inteso controllare) la destinazione, la gestione e l’impiego dei fondi e la distribuzione degli aiuti (situazione purtroppo ricorrente in tale tipologia di missioni).

  1. Ora che l’Occidente è fuori, quali saranno i Paesi più veloci nel posizionarsi e tagliarsi un ruolo nel nuovo Afghanistan post-americano? Qualcuno di essi, può essere un buon mediatore per l’Italia e per l’Europa nel caso in cui decidessimo di non avere rapporti con i Talebani. 

La Cina ha già espresso formalmente la propria posizione in supporto del regime talebano in termini di aiuti economici, umanitari (vaccini Covid) e investimenti infrastrutturali; ovviamente si aspetta che i talebani non diano supporto ai guerriglieri uiguri che combattono Pechino.

Il Qatar è un altro “supporter” dei talebani, come il Pakistan. Entrambi hanno avuto entro i propri confini i vertici degli studenti islamici ed hanno già iniziato a collaborare (es., il Qatar per il ripristino operatività aeroporto di Kabul).

Non occorre dimenticare, inoltre, la Turchia che ha sempre avuto una posizione di quasi neutra nei confronti dei talebani in questi vent’anni di missione ISAF.

  1. Dopo aver preso il potere in maniera relativamente facile, vi è il rischio che i Talebani falliranno nel tenere assieme il loro emirato? Quanto è alto il rischio di una guerra civile? 

Il rapido e disordinato ritiro dei contingenti occidentali rischia di provocare una “guerra civile totale” che può indurre i principali attori regionali (Cina, Pakistan, Russia, Iran e India), alcuni dei quali con capacità nucleare, ad intervenire direttamente per colmare il “vuoto di potere” per tutelare i propri interessi nazionali. Uno scenario che potrebbe destabilizzare l’intera Asia Centrale, anche per il tentativo dell’ISIS di utilizzare il territorio afghano quale base per espandere il terrorismo in tutta la regione avvalendosi dell’alleanza con i gruppi jihadisti presenti.

  1. Gli Usa hanno lasciato una quantità impressionante di armi e mezzi, soprattutto armi leggere e mezzi corazzati. È Qualcosa di cui dobbiamo preoccuparci o piuttosto un modo di legare agli Usa il settore della difesa del nascente stato?

I consistenti equipaggiamenti catturati alle forze di sicurezza afghane, soprattutto le armi individuali e i mezzi ruotati blindati, serviranno a potenziare le capacità combat dei talebani e potrebbero essere distribuiti alle formazioni terroristiche che operano in Paesi confinanti.

Una situazione diversa riguarda, ritengo, i velivoli (aerei ed elicotteri) che richiedono una organizzazione logistica ad hoc per il loro mantenimento in efficienza, che era garantita in precedenza da contractor civili. Senza questo supporto, anche con piloti governativi che sono passati sotto le bandiere talebane, la flotta aerea rischierebbe a breve di ridursi sensibilmente.

Verosimilmente, interverranno sia tecnici provenienti dai Paesi che già ora hanno rapporti con Kabul sia foreign fighters per mantenere operativi tutti questi mezzi.

Ritengo che una parte degli equipaggiamenti più sofisticati siano andati già all’estero per essere studiati dai potenziali avversari degli USA.


Paolo Quercia

E' direttore responsabile della rivista geo-economica GEO TRADE. Analista politico, esperto di strategia e relazioni internazionali. Ha lavorato come direttore di ricerca e analista per il Centro Alti Studi della Difesa di Roma, occupandosi di relazioni internazionali, sicurezza e rischio paese. È stato consulente del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministero degli Affari Esteri. Ha collaborato con numerosi centri studi italiani e stranieri per realizzare progetti di ricerca policy oriented, tra cui l’Unità di Analisi e Programmazione del Ministero degli Esteri. È direttore scientifico di AWOS A World of Sanctions e autore di analisi sul rischio sanzionatorio per le imprese. Insegna “Studi Strategici” al corso di Relazioni internazionali nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia. Tra le sue recenti pubblicazioni “Geopolitica e Commercio Estero: Sicurezza economica, export control e guerre commerciali”.

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