Le elezioni presidenziali 2020:  il futuro degli Stati Uniti

Le elezioni presidenziali 2020: il futuro degli Stati Uniti

Biden e il futuro degli Stati Uniti

L’Europa in generale, e la Genève internationale in particolare, sono andate in fibrillazione per l’elezione del candidato democratico Joe Biden in seguito all’annuncio dato dalla rete televisiva Cnn lo scorso 7 novembre.

Senza ombra di dubbio, il presidente Biden ha di fronte a sé un compito titanesco, ma il Vecchio Mondo gli fa affidamento senza indugi per ricucire gli strappi del tessuto multilaterale a opera del suo tempestoso predecessore.

L’ex senatore del Delaware è un politico navigato che conosce tutti i meandri o meglio i gironi di Capitol Hill (il parlamento statunitense). Infatti, è un uomo per tutte le stagioni che forse saprà riappacificare gli Stati Uniti d’America, mai così divisi dai tempi della Guerra di secessione.

Dalla tavola rotonda organizzata dall’Università Webster lo scorso 10 novembre (“2020 US Presidential Election: What Next?”), a cui hanno partecipato come relatori Claudio Bozzo, direttore operativo della Mediterranean Shipping Company, Paolo Graziano, ordinario di Scienza politica presso l’Università di Padova, Jussi Hanhimäki, ordinario di Storia delle Relazioni internazionali presso l’Institut de Hautes Etudes Internationales et du Développement, Yossi Mekelberg, ordinario di Relazioni internazionali presso la Regent’s University di Londra e l’ambasciatore a riposo Slavi Pachovski, già rappresentante permanente della Bulgaria presso l’Onu di New York, sono emerse importanti sfumature che talvolta i media nazionali e internazionali non hanno colto appieno.

Innanzitutto, il centrista Biden dovrà ristrutturare un partito, quello democratico, dalle mille anime. La “Balena blu” – con i dovuti distinguo rispetto a quella bianca della vecchia Dc italiana –, è a pezzi e solo un buon samaritano come Biden, promettendo l’impromettibile alle tre principali correnti del suo partito potrebbe farcela a mettere insieme i cocci. Infatti, l’anziano politico cattolico dovrà tenere a bada:

1) L’ala conservatrice minoritaria di destra (la cosiddetta “Blue Dog Coalition”; cioè, i conservatori fiscali e sociali i cui esponenti principali sono Mary Landrieu, Bob Casey e Ben Nelson, che sostengono il diritto al porto d’armi, la restrizione dell’Ivg e il protezionismo economico);

2) Il ramo progressista alla riscossa in quasi tutti gli stati Dem (questa corrente è rappresentata da Alexandria Ocasio-Cortez, Bernie Sanders, Bill de Blasio, Nancy Pelosi ed Elizabeth Warren, ed è favorevole a una socialdemocrazia di tipo europeo, alla difesa dei diritti delle persone Lgbt, al diritto all’Ivg e a una ferrea restrizione del porto d’armi);

3) La sua stessa corrente i cui esponenti principali sono Bill e Hillary Clinton, Barack Obama e Bill Richardson, che sostengono il liberismo economico tout court.

Queste divisioni all’interno del partito dell’asinello non sono certo salutari alla democrazia a stelle e strisce. Infatti, prima o poi il Partito Democratico dovrà sedersi insieme al partito dell’elefantino (il Partito Repubblicano) intorno a un tavolo per riformare l’obsoleto sistema elettorale. Magari insieme a un terzo partito indipendente di cui si sente sempre di più la necessità per evitare una polarizzazione estrema come quella attuale.

In politica estera, bisognerà sicuramente rinsaldare il legame con i paesi della Nato e riprendere le redini della più grande alleanza militare dell’età contemporanea (con grande felicità da parte della Germania, che non vuole ancora assumersi le responsabilità dovute al suo rango di prima potenza economica e ‒ se solo lo volesse ‒ militare dell’Unione Europea), nonché rientrare nei consessi multilaterali onusiani allentando i cordoni della borsa.

Tuttavia, non credo che l’accordo nucleare iraniano possa essere rinegoziato senza dovere subire eventuali richieste spropositate da parte di Rouhani o Khamenei. L’ambasciata statunitense in Israele resterà a Gerusalemme e, infine, la guardia nei confronti della Repubblica Popolare Cinese non verrà abbassata, ma cambieranno i toni.

Riguardo a Donald Trump, bisogna affermare chiaramente che ha fatto un balzo straordinario in avanti con i suoi oltre 74 milioni di voti. Ha migliorato il suo elettorato del 2016 e, indubbiamente, ha un seguito enorme negli Stati Uniti… la metà del paese è repubblicana. Una tale polarizzazione non fa certo bene alla prima potenza economica e militare del mondo.

Tuttavia, bisogna affermare che l’era Trump non è stata un disastro per tutti, ma certamente lo è stata per l’America e per l’Europa. Altri paesi, invece, ne hanno tratto beneficio; per esempio, la Cina e forse la Russia. In termini di statura internazionale e del mantenimento del soft power, nonché per i rappoorti con i loro alleati tradizionali, i risultati sono stati pessimi.

Biden e il futuro degli Stati Uniti

Il nostro pianeta è cambiato e il vero vincitore delle elezioni presidenziali statunitensi è il Covid. Senza la pandemia e la cattiva gestione della medesima, Donald Trump avrebbe vinto un secondo mandato. Non si può certo ritornare indietro con le lancette dell’orologio a cinque anni fa. Ormai la crisi (dal greco κρίσις, cioè separazione, scioglimento, ma anche cambiamento e riflessione), cioè la frattura, è e resta importante.

Donald Trump si posiziona alla testa di una corrente politica trasversale e internazionale che spinge a un certo autoritarismo e a un ritorno a un nazionalismo d’antan che piace a tanti leader politici europei in Ungheria, Polonia, Francia, Inghilterra e Italia.

Per fortuna, dall’altra parte dell’oceano si vuole ritornare al liberismo internazionale. Dopo la pandemia, le chiusure e i decreti restrittivi delle libertà individuali, c’è voglia di cooperazione, di europeismo e di atlantismo; per esempio, per condividere un vaccino. Biden, infatti, ha deciso di dare il surplus di vaccini statunitensi al resto del mondo. Inoltre, ha già confermato di volere partecipare con quattro miliardi di dollari all’iniziativa globale Covax per distribuire vaccini nei paesi in via di sviluppo.

È il segnale che l’America è di nuovo sui binari giusti; cioè, è di nuovo un attore internazionale di primo rango pronto a difendere diritti umani e democrazia.

Dal punto di vista europeo, si dovrebbe cogliere l’occasione di rafforzare il dialogo transatlantico e allo stesso tempo ristrutturare l’Europa politica. L’impasse del Consiglio di Sicurezza dell’Onu è di fronte a tutti. Il sistema internazionale è in un pantano operativo da più di un decennio. Pertanto, è necessario avere due assi forti: la cooperazione internazionale per evitare guerre e la rimessa in gioco dell’Europa politica partendo dalla costruzione di un’Europa della difesa che sia complementare alla Nato. Insieme, Washington e Bruxelles riusciranno a fronteggiare efficacemente le politiche espansionistiche di Mosca e Pechino.

Oreste Foppiani

Oreste Foppiani è Visiting Research Fellow e professore associato di Storia e Politica internazionali presso il Robert Schuman Centre for Advanced Studies dello European University Institute (www.eui.eu). Ha insegnato o diretto progetti di ricerca in diversi atenei tra Ginevra, Milano, Tokyo, Washington e New York. Membro dell'Association Genevoise des Journalistes (RP Impressum) e dell'Ordine dei Giornalisti dell'Emilia-Romagna (2004-2018), è stato corrispondente permanente di Libertà presso l'Onu di Ginevra dal 2008 al 2016.

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