Il mare color veleno

Il mare color veleno

Il nuovo libro di Fabio Lo Verso è un viaggio. Un viaggio duro attraverso la costa più inquinata della Sicilia, quella tra Augusta e Siracusa, dove la popolazione convive da mezzo secolo con i veleni di un gigantesco polo petrolchimico.  Un reportage narrativo crudo e dolente che fa finalmente luce sul disastro ambientale meno conosciuto d’Italia ma il più antico e inquietante.

“Cercare la verità è come scendere in fondo al mare: puoi trovare di tutto

e a quel punto non puoi più tirarti indietro”. 

Rosario Fiorello

“Il quadrilatero della morte” Così è stato ribattezzato il tratto della costa siciliana tra Augusta e Siracusa. Qui, ha sede il più grande polo petrolchimico d’Italia, il secondo d’Europa che produce il 37% del PIL della regione. Tre impianti di raffinazione petrolifera, due stabilimenti chimici, tre centrali elettriche, un cementificio, due fabbriche di gas industriale e decine di aziende dell’indotto. Qui ormai da anni, si consuma un disastro ambientale enorme: veleni industriali hanno contaminato il mare, la terra, l’aria e le falde acquifere. Ed hanno fatto molte vittime. Una tragedia colossale e silenziosa che Lo Verso descrive con toni semplici ma potenti nel suo libro.

Il mare color veleno

Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?

È una storia personale, come racconto nell’introduzione del libro, che risale alla mia infanzia in Sicilia. Ma per essere breve, ecco il quesito che ha fatto scattare la molla, rivolto a parenti, amici e innanzitutto a colleghi giornalisti: a nord di Siracusa, per oltre trenta chilometri, il litorale è stato inghiottito da un polo petrolchimico, le industrie hanno contaminato tutto, davvero tutto, l’acqua, l’aria, il suolo, il sottosuolo e soprattutto il mare; tu conosci questa storia? Il mutismo e l’imbarazzo dei miei interlocutori mi hanno spinto a scrivere questo libro che è sì un’inchiesta, ma si legge come un romanzo.

Quanto è durata la tua ricerca per l’inchiesta? Come l’hai sviluppata?

In due fasi. Nell’arco di un paio di anni, ho letto il malloppo di studi scientifici, atti parlamentari, articoli di giornali, ho studiato tutto ciò che si è mosso sullo sfondo di questa storia ancor troppo poco conosciuta, cominciata settant’anni fa, dall’insediamento della prima industria nel dopoguerra. Successivamente, nell’arco di un altro paio di anni, mi sono recato più volte sul territorio. Ho raccolto i racconti dei personaggi che oggi portano sulle loro spalle il peso del disastro, e di quelli che invece se lo sono scrollato di dosso. 

Chi sono i protagonisti del tuo libro?

Sono soprattutto donne, mamme e mogli che hanno perso figli e mariti per un tumore, sono inconsolabili e incazzatissime. Ci sono anche gli infaticabili attivisti dell’ambiente che perdono sempre ma ogni volta si risollevano e continuano la lotta. Fra questi un parroco, battagliero e ingegnoso, che ogni ventotto del mese durante l’omelia declama i nomi dei defunti per cancro. Nella sua lista, composta con l’ausilio dei fedeli, ha raccolto oltre milleduecento vittime. Ci sono ex operai incarogniti e pescatori idealisti. E non potevano certo mancare gli strenui difensori delle fabbriche che negano ogni nesso con i ricoveri e le morti per esposizione all’inquinamento. Un nesso che è stato definitivamente sancito da scienziati che ho incontrato e con i quali ho intessuto rapporti di fiducia.

Nel libro parli di una distruzione ambientale resa possibile dal ricatto del lavoro: ce lo spieghi?

Il ricatto del lavoro si contempla nella funesta ideologia del «meglio morire di cancro che di fame», a cui la popolazione si è convertita senza remissione, azzerando nelle menti qualsiasi idea di contrasto al dilagare dell’inquinamento. Quando la gente ti dice che senza le fabbriche non c’è lavoro e si muore di fame, vuol dire che l’industria è padrona del futuro dei lavoratori. 

Oggi che si parla tanto di transizione ecologica, quale può essere la soluzione per quei trenta chilometri di costa siciliana?

Guardando al precedente di Gela, dove si raffinava petrolio e ora si producono biocarburanti, si è auspicato lo stesso modello green per le fabbriche del siracusano. Ma il presidente di Confindustria Siracusa mi ha spiegato che proprio a causa di quel precedente, il mercato dei biocarburanti è saturo. Motivo per cui le industrie qui non hanno investito su quel tipo di transizione ecologica. Un progetto su scala industriale di idrogeno pulito o verde, da situare nell’entroterra siracusano, è in fase di valutazione ma non è stato concepito per sostituire il polo petrolchimico. Ad oggi, nell’area industriale di cui parlo, l’avvenire della transizione ecologica è un repertorio vuoto.

Cosa vuoi dire con questo libro?

Personalmente non voglio dire nulla, ma il libro dice tutto quello che serve sapere di questo gigantesco disastro. Fra tutte le cose scritte, c’è un’urgenza, la bonifica della rada di Augusta, quello scorcio di mare colore veleno a cui dedico il titolo del libro. Qui gli sversamenti industriali – di mercurio, piombo, idrocarburi pesanti, esaclorobenzene, diossine e furani -, mescolandosi con i fondali, hanno formato un impasto tossico monumentale. Immaginiamo di disporre di uno strumento capace di prelevare la totalità dei fanghi industriali dalle profondità marine e poi di usare gli stessi, come fossero calcestruzzo, per costruirci dei condomini: se ne potrebbero erigere più di tremila, ognuno di sei piani, in cui troverebbero posto ottantamila inquilini, il doppio della popolazione di Augusta. Un dato sconcertante, da sussulto cardiocircolatorio, che un giorno ho svelato a mio padre: «Matri santissima», sbottò, e poi si mise le mani ai capelli.

Cosa speri accada?

La speranza è che il mio libro riesca a dare infine un’eco nazionale al dramma di questo lembo di Sicilia, alleviando almeno un po’ la pena di quella gente che si sente abbandonata e dimenticata, tradita dalla promessa industriale e minacciata da un inquinamento dalle proporzioni incalcolabili.

Fabio Lo Verso è nato a Palermo ma da 35 anni vive a Ginevra, dove ha lavorato al quotidiano «Tribune de Genève» come cronista, editorialista e corrispondente parlamentare da Berna. È stato poi direttore del quotidiano «Le Courrier» e in seguito della testata di approfondimento «La Cité». Oggi è membro di un consorzio internazionale di giornalisti d’inchiesta in Europa.

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Paola Proietti

Romana, classe ’77, giornalista professionista dal 2008, ha lavorato per radio, televisione, web e anche la vecchia carta stampata. Conduttrice, redattrice, speaker, ghost-writer, ha avuto esperienze anche come addetto stampa e organizzatrice di eventi. Dal 2014 è reporter freelance e videomaker. Adora il giornalismo d’inchiesta, tanto che nel 2005 ha vinto il premio ILARIA ALPI per aver portato alla luce un giro di doping in una società di ciclismo giovanile. Da sette anni vive in Svizzera, dove opera principalmente come giornalista e video maker per testate web. E’ mamma di due bambine e organizza eventi culturali con il Gruppo genitori Ginevra.

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