Sicurezza alimentare, parla Yasmine Motarjemi
Yasmine Motarjemi, ex direttore della sicurezza alimentare della Nestlé, ci parla della salubrità del cibo e del bullismo aziendale.
La cultura della paura nelle imprese è ancora un fenomeno attuale?
Sempre di più. La cultura dell’organizzazione aziendale è, inoltre, fondamentale. Tutti gli studi dimostrano che la cultura aziendale è alla base dei problemi nelle imprese. La cultura della paura è relativa al fatto che i dipendenti hanno paura di riferire i problemi ai loro superiori e sono proprio loro, i dipendenti, che conoscono meglio di chiunque altro cosa non funziona nell’azienda. Addirittura, l’azienda ricorre spesso a dei consulenti esterni anziché fare affidamento ai propri dipendenti per risolvere i problemi o migliorare un processo di produzione.
Quando ci sono degli incidenti o delle lamentele, non si fa un’indagine accurata sugli ostacoli incontrati dai dipendenti e spesso si scarica il barile su di loro anziché mettere in questione il top management, che è infine il vero responsabile. C’è anche la cultura del bullismo, dell’imbroglio e della bugia, tutte cose che ho provato in tribunale nella causa contro il mio ex datore di lavoro (Motarjemi ha vinto una famosa causa contro Nestlé, n.d.r.). Tutti questi fattori fanno sì che i dipendenti, a poco a poco, smettano di essere motivati per fare bene il loro lavoro. Alzano le spalle e se ne fregano.
Qual è l’importanza della trasparenza e del controllo nelle imprese in generale e in quelle agro-alimentari in particolare?
Riguardo alla trasparenza, il problema è che se i dipendenti, all’interno, non possono parlare dei problemi senza essere vessati, prima o poi, questi problemi si tradurranno in incidenti. Attualmente, le autorità non danno il diritto ai dipendenti di riferire il loro vissuto e i dettagli relativi a tutto ciò che riguarda la sicurezza.
Capisco bene che i dipendenti non possano riferire all’esterno ricette o formule segrete, dati finanziari o tecnologici, ecc., ma quando si tratta di come l’azienda gestisce la sicurezza, dove sono in gioco delle vite umane, i consumatori devono aver il diritto di sapere.
Prendiamo, per esempio, il caso dei biscotti per neonati della Nestlé, che hanno provocato dei soffocamenti. All’epoca, il direttore della qualità venne a dire in tribunale che i biscotti erano sicuri quando, invece, nel solo anno 2002, circa 40 casi furono portati all’attenzione di Nestlé. Ma c’erano anche casi non dichiarati. Ogni anno, almeno un centinaio di casi di soffocamenti capitavano tra i neonati di 8 mesi. Più tardi, con un altro tipo di prodotti altri poppanti sono morti soffocati. Non ha forse diritto il consumatore di sapere se l’azienda produttrice ritiene importante informare i consumatori su come gestisce la sicurezza? Su questo punto, la legislazione svizzera non è certamente d’aiuto e tende spesso a favorire l’azienda.
Come si potrebbe assicurare la sicurezza alimentare in un mondo globalizzato?
A causa degli incidenti del passato, negli ultimi tre decenni, abbiamo accumulato talmente tante informazioni scientifiche, che ora abbiamo un buon sistema per gestire la sicurezza del cibo. Quando il sistema è applicato, possiamo avere del cibo sicuro a livello industriale. Per contro, abbiamo degli incidenti in casa e nei ristoranti. E qui ci vuole molta educazione alimentare per i genitori e i ristoratori, ma bisogna partire dai bambini, perché è difficile cambiare i comportamenti degli adulti.
Educazione alimentare fin da piccoli
Si devono educare i bambini all’educazione alimentare (Motarjemi ha scritto il libro Les invisibles per spiegare ai bambini cosa sono i microbi, n.d.r.).
Per la parte industriale, dicevo, abbiamo un buon sistema. Tuttavia, quando abbiamo degli incidenti, emergono le inadempienze. Abbiamo leggi, analisi, sistemi, ispezioni, controlli, che assicurano la sicurezza degli alimenti. Ma dove abbiamo una grande lacuna è nel fattore umano, il controllo del fattore umano; cioè, che i dipendenti siano messi nelle condizioni di fare il loro lavoro. Quando altri giornalisti mi chiedono che problemi c’erano alla Nestlé, io dicevo che c’erano tanti problemi.
Soprattutto, in alcuni impianti di produzione nel mondo i dipendenti o non erano qualificati o non erano motivati. Quindi, cortocircuitavano il processo o facevano degli errori e li nascondevano. Non parlavano alla direzione fino a che non si verificava un incidente.
A volte erano anche sotto organico. Per esempio, quando sono arrivata a Nestlé, si produceva del latte in polvere per neonati e le specifiche dove si indicavano alle fabbriche la percentuale di vitamine, di minerali, ecc., queste cifre non erano convalidate. E quando io chiedevo il dossier con i calcoli esatti di quelle percentuali, non c’era. E io non firmavo finché non avevo questi calcoli davanti a me. Allora, cambiarono la procedura affinché io non dovessi firmare nulla. Allora, ho iniziato a protestare all’interno per iscritto. Ho preso la mia nota e l’ho presentata di persona al direttore della produzione del latte per neonati. Lui mi promise di fare un gruppo di lavoro. Tutte le settimane e tutti i mesi chiedevo dei risultati, ma non arrivavano mai.
Una perdita di tempo. Fino a che un’altra impresa, Humana, ha avuto un incidente in Israele con dei neonati morti e altri con danni neurologici , perché c’era un errore nella formula del latte e mancava la vitamina B1. Ed era questo che volevo dimostrare. E ricevetti pure delle lamentele dalle fabbriche che riferivano che secondo le legislazioni dei paesi in cui operava Nestlé, la multinazionale vodese era in violazione sulle vitamine A e D. Io dissi: dimenticate le norme Nestlé e fate ciò che vi dice il vostro governo fino a quando noi, globalmente, non avremo fissato le nostre norme. E allora, Nestlé si sveglia, mi ascolta e mette in piede tutta una serie di norme. E il direttore della qualità, che era il mio superiore ed era una brava persona, mi disse che se la “direzione ti chiede se ciò che è successo a Humana potrebbe succedere anche a noi, tu devi rispondere di no”.
Ma io sapevo che non era vero. E un giorno mentre ero sul treno con il CFO di Nestlé, mi fa la stessa domanda e compresi che questa domanda girava tra i pezzi da novanta della società. E io titubai tra la lealtà verso il mio capo e quella verso la verità. Per fortuna, gli risposi diplomaticamente dicendogli: “Ufficialmente no”. Dopo questa storia, c’è stato questo altro direttore, Roland Stalder, quello riconosciuto colpevole di mobbing dal tribunale, che diventa il nuovo direttore della qualità. Prima di questo incarico, era al Product Technology Centre a Konolfingen (Berna) e aveva già ricevuto dalla Cina una lamentela per la violazione delle norme cinesi riguardo allo iodio nei micro-nutrimenti.
Nestlé, quindi, aveva continuato a vendere nonostante non fosse conforme. La Cina, quindi, fa una indagine e, scoperto l’eccesso di iodio, fanno una protesta formale, ma Nestlé se ne frega e non risponde per alcuni giorni. Allora, la Cina si arrabbia e impone a Nestlé il ritiro dei prodotti dal suo territorio. Dopo la nostra inchiesta interna, scoprimmo che la fabbrica mancava di risorse e non riusciva a lavorare correttamente il prodotto. Durante il processo, Nestlé rispose che era colpa della Cina, che non aveva le norme giuste. Quindi, Nestlé aveva le sue norme, che la Cina avrebbe dovuto adottare.
A proposito di norme e controlli, cosa ne pensa dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (www.efsa.europa.eu) di Parma?
L’EFSA non controlla la qualità: fa solo una valutazione dei rischi. Non ci sono certo azioni di enforcement. Oggigiorno, manca un’autorità internazionale di regolamentazione a cui si possano riferire i problemi riscontrati nell’industria e che quando ci sono degli incidenti, analizzi gli incidenti e produca un’informazione guida su come prevenire gli incidenti. Prediamo il caso dell’intossicazione alimentare che ha avuto luogo quest’anno in Francia con la Pizza Buitoni di Nestlé.
Lo stesso incidente si verificò negli Stati Uniti nel 2009 e all’epoca ero a Nestlé e avevo già dato l’allarme, ma alla Nestlé avevano tolto il mio nome dall’organigramma affinché le autorità statunitensi non mi potessero trovare se fossero venute al centro a chiedere conto della sicurezza alimentare di quel prodotto. Però, gli americani non sono mai venuti alla Nestlé.
Quando c’è un incidente, le autorità investigative nazionali esaminano quale sia l’agente (Escherichia coli, salmonella, ecc.), quale sia la causa (la farina) e le indagini si fermano lì. Diamine! Non si chiedono perché la farina è contaminata? Non c’erano forse le competenze? E se lo sapevano, cosa hanno fatto per decontaminare la farina? Gli americani non hanno fatto un’indagine fino a Vevey (sede del quartier generale della Nestlé, n.d.r.), fino al top management, dove avevo già dato l’allarme. Gli americani avrebbero dovuto indagare sul perché quella determinata fabbrica ha avuto una défaillance durante la produzione. E non c’è stata nessuna organizzazione che ha stabilito che in futuro si sarebbe dovuta trattare la farina termicamente per evitare che si contamini.
L’esperienza non è mai stata utilizzata per prevenire altri incidenti. Mi sarebbe piaciuto che un’organizzazione come l’OMS avesse studiato il caso Nestlé in USA e impartito istruzioni al mondo intero perché incidenti di quel tipo non si verificassero più. Con il cioccolato, ancora, abbiamo avuto più casi di salmonella. E ogni volta l’azienda ha fatto gli stessi errori.
L’OMS può fare veramente qualcosa o dà solo dei consigli?
Oggigiorno l’OMS fa solo delle raccomandazioni, dà dei consigli, ai governi. Questi ultimi, poi, possono applicare tramite la loro normativa le raccomandazioni dell’OMS. Io mi auguro che l’OMS possa giocare un ruolo più proattivo nei confronti di coloro che danno l’allarme, gli informatori; cioè, che gli informatori siano presi sul serio. Prendiamo il caso del COVID-19. In Cina, ci sono state delle persone che hanno dato l’allarme prima del gennaio 2020, ma l’OMS non li ha presi in considerazione. Se l’avessero fatto, avrebbero potuto attivarsi prima del febbraio 2020. Inoltre, questi informatori sono stati zittiti e perseguitati da Pechino.
Pensa che le associazioni per la difesa dei consumatori possano influenzare le aziende alimentari affinché producano cibi buoni e salubri?
Tutti possono fare qualcosa. Tuttavia, nel mio caso, nonostante abbia informato le associazioni per la difesa dei consumatori, non ne hanno voluto sapere nulla. Hanno chiuso gli occhi. Non hanno nemmeno voluto analizzare le prove che gli avevo sottoposto. Avrebbero persino potuto fare una causa collettiva.
Il suo ruolo d’informatrice nel processo contro Nestlé ha stravolto la sua vita. Lo rifarebbe?
Più o meno rifarei tutto. Era il mio lavoro. Sono stata etichettata come informatrice, ma ho solo fatto il mio lavoro. Sappia che durante i dieci anni in cui ho sollevato sempre il problema della sicurezza riguardo alla produzione di alcuni prodotti, ci sono state due fasi: durante i primi quattro anni, protestavo in maniera più pacata; poi nei successivi quattro anni, ho sbattuto i pugni sul tavolo, ho sventolato una bandiera rossa per segnalare il pericolo. In questa fase, sono diventata un’informatrice.
Si lamentava e basta o proponeva delle soluzioni?
Certo che le proponevo! Sia per i problemi specifici che per la mancanza di risorse. Ho chiesto al nostro Centro di fare delle ricerche. Ho pure chiesto di fare un audit del mio ufficio, del mio lavoro. E me l’hanno rifiutato. Durante i dieci anni in cui ero alla Nestlé, non ci sono mai stati degli audit e nemmeno delle ispezioni da parte delle autorità. Nemmeno in seguito a degli incidenti, non ci sono mai state delle inchieste sul mio operato.
È vero che il bonus dei manager della Nestlé era legato al minor numero dei prodotti che venivano ritirati dal mercato?
Sì, è vero. Questi dirigenti non facevano l’interesse dell’azienda, ma il loro interesse. Io, invece, ero forse il manager più leale all’azienda, perché facendo il mio lavoro facevo l’interesse del mio datore di lavoro. Infatti, la soddisfazione e la protezione della salute del consumatore fidelizzavano il cliente. Il direttore della qualità—rispondendo alla domanda della giudice durante il processo riguardo al perché non ascoltasse i ricercatori e gli esperti di Nestlé che gli sconsigliavano di mettere sul mercato un prodotto non sicuro—, disse a un certo punto che se ne fregava dei ricercatori e che lui prendeva le informazioni necessarie dall’enciclopedia Larousse gastronomique.
Lei ha vinto la causa contro il colosso dell’industria alimentare di Vevey: come si sente dopo questa vittoria?
Bisogna leggere la sentenza d’appello per bene. Alcuni articoli, come quello del Financial Times non sono precisi. Non ho vinto una causa per licenziamento abusivo e basta. Ho vinto una causa per molestie, e nella sentenza si afferma che le molestie sul lavoro sono state continuative, insidiose, di lunga durata e ad alta intensità. La sentenza afferma anche che la direzione era complice e che Nestlé non ha fatto un’indagine sulla questione della sicurezza di alcuni prodotti da me sollevata. Inoltre, l’inchiesta interna per molestie era fraudolenta.
Queste molestie hanno rovinato la mia brillante carriera e sono state fatte con la complicità del top management. Tutto ciò si trova nella sentenza. Credo che le molestie psicologiche ti distruggano dentro ed è difficilissimo guarire da questi traumi. È una tortura psicologica ed è difficile provarla. Tuttavia, io sono riuscita a provarla e ho vinto la causa. Ho vinto una causa per molestie. Molestie che hanno distrutto la mia carriera.
Nestlé è stata sanzionata dal governo cantonale oppure da quello federale?
No. Non è stata sanzionata. Per adesso, il processo continua per calcolare le indennità relative ai danni economici subiti, ma non per il torto che mi hanno fatto. Per quest’ultimo, ho domandato simbolicamente un franco. Volevo mostrare che non lo facevo per i soldi. Tuttavia, visto che sono stata molto malata e non potevo più lavorare, oltre alle enormi spese d’avvocato, ho chiesto il rimborso delle spese legali e degli stipendi persi. E per questo rimborso mi devo ancora battere in tribunale, perché Nestlé non vuole pagare.
E i costi sono lievitati tantissimo, perché Nestlé ha fatto di tutto per tirare per le lunghe il processo, farmi spendere sempre più soldi in parcelle d’avvocati e, quindi, convincermi a gettare la spugna e comprare il mio silenzio con un accordo transattivo e il pagamento di una grossissima cifra. Per ogni bugia che hanno detto ho dovuto prepararmi e provare che mentivano. Mi hanno pure querelato per aver parlato alla stampa, ma il processo era già in corso e il pubblico doveva sapere. La cassa pensioni di Nestlé mi ha persino fatto causa, perché ho pubblicato degli articoli e dei libri per uscire dalla depressione e lavorare. Tutto ciò mi è costato tantissimo in termini di spese legali.
Pensa che i media svizzeri e internazionali abbiano trattato correttamente la sua storia umana e professionale?
In generale no, ma ci sono state delle eccezioni come, per esempio, France Culture ed Euronews. Tuttavia, ciò che rimprovero ai media è che non hanno fatto un’analisi accurata di questo affare. Lo hanno trattato molto superficialmente. Altri media mi hanno pure censurata: BBC News mi ha intervistato e poi non ha mandato in onda l’intervista e il New York Times mi ha dato appuntamento chiedendomi di preparare un dossier e poi è sparito. Non s’è più fatto vivo.
Numerosi giornali mi hanno avvicinato, ma poi non si sono più fatti vivi. Le Monde ha scritto all’inizio un breve articolo, ma alla fine del primo processo il quotidiano francese non ha seguito la cosa e mi ha detto che avrebbe scritto altri pezzi solo se avessi vinto la causa. Infine, quando ho vinto il processo in appello non hanno lo stesso scritto nulla. Le Temps, ha scritto che avevo vinto il processo, ma l’informazione era un po’ superficiale. In seguito, una giornalista del medesimo giornale era venuta col fotografo a farmi una lunghissima intervista sulla sicurezza alimentare, l’articolo è stato censurato. Poi, questa giornalista ha lasciato Le Temps.
Possiamo ancora fidarci dei prodotti alimentari che troviamo sugli scaffali dei supermercati?
Non bisogna certo generalizzare. Non tutti i prodotti in commercio sono pericolosi. Tuttavia, le autorità devono vigilare. Il nostro sistema è composto di più misure o controlli per evitare che il prodotto contaminato arrivi sul mercato. Non dico nemmeno che bisogna boicottare Nestlé, perché produce anche ottimi alimenti. Tuttavia, bisogna sanzionare chi sbaglia e chi permette che ci siano delle falle nel sistema dei controlli di sicurezza.
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