Tra Marco Polo, Montecristo e Montanelli: intervista a Beppe Severgnini

Tra Marco Polo, Montecristo e Montanelli: intervista a Beppe Severgnini

L’editorialista e vicedirettore del Corriere della Sera, autore dello storico blog Italians, creato nel 1998 e recentemente arricchito dal podcast domenicale “Radio Italians”, ha scritto numerosi libri di successo sul carattere degli italiani e sugli italiani all’estero. La sua opera più recente è Neoitaliani (Rizzoli, Milano, 2020), una sorta di manifesto che ruota intorno a 50 motivi per essere italiani (verrà pubblicato anche negli USA, edizioni Vintage).  “Quell’elenco è un modo per spiegare chi siamo, e capire chi potremmo essere”, spiega Severgnini. 

Lei al Corriere della Sera non si limita a scrivere: è attivo sul web, usa blog da più di vent’anni, video e audio.  Ci sta dicendo che il giornale di carta è finito?

Tra Marco Polo, Montecristo e Montanelli

Non è finito: ma sarà – anzi, è già – un prodotto per una minoranza. La lettura su carta è gradevole, ma un quotidiano non è un oggetto romantico, come un libro. È un servizio.  Quando dico Corriere della Sera non penso solo al giornale di carta, ma a tutti i formati e a tutte le edizioni: digitale, video, audio, live, ecc. Dal 1998 tengo il blog “Italians”, dal 2001 la rubrica sul quotidiano con lo stesso titolo, dal 2019 la video-rubrica “Fotosintesi”, da quest’anno il podcast “Radio Italians”: sono sempre io, ed è sempre il Corriere della Sera.

Vale per noi, vale per tutti. È in atto una sfida immensa al giornalismo e, di conseguenza, anche ai giornalisti. Una volta avevamo una sorta di esclusiva: se non eri un giornalista (con accesso a giornali, radio, tv), le tue opinioni potevi dirle tutt’al più agli amici al bar. Oggi strumenti formidabili – di produzione, di diffusione – sono a disposizioni di tutti. Questo è bene, da un lato; ed è insidioso, dall’altro (pensiamo a quanto accade con la pandemia e i vaccini, e a cosa è successo con il populismo aggressivo).

Cosa ne pensa della nuova emigrazione italiana?

Penso sia un problema sottovalutato e lontano dal cuore di molti italiani in Italia. Ed è triste. Nel mio libro più recente, Neoitaliani, dove elenco cinquanta motivi per essere italiani, arrivo a scrivere (n. 38): “Perché in ogni laboratorio ci sono un computer, una pianta verde e un italiano”. Questo pezzo è ambientato in Cina: là, ma non solo là, ho capito l’amarezza di chi si sente lontano e ignorato dall’Italia.  Lontano dagli occhi lontano dal cuore: peccato.  Io sono stato un italiano all’estero, ho dedicato una buona parte della mia vita professionale a questo tema, il forum “Italians” è nato per questo: era un modo per stare insieme.

Ho la sensazione che la nuova emigrazione professionale italiana – iniziata negli anni Ottanta del Novecento – sia divisa in due: ci sono i Marco Polo e i Montecristo. I primi vogliono partire per esplorare e imparare, per vedere cosa c’è fuori dall’Italia: questo è bello e fa bene. I Montecristo, invece, vanno via delusi e amareggiati: non partono, evadono da un Paese dove non si sentono capiti.  

Cosa si potrebbe fare di più per favorire la diffusione della cultura italiana all’estero?

Bisogna lavorare sulla lingua italiana, che resta un grande veicolo: evoca molte cose belle della vita (arte, musica, cibo, stile, cinema, città accoglienti). Ma non basta. Bisogna creare – ora il web lo consente – contatti e relazioni ovunque. Certo, niente può sostituire l’incontro personale. Ma le due cose, se usate bene, sono complementari. Ho appena presentato il mio nuovo libro a Los Angeles, via Zoom, in italiano e inglese, con il mio traduttore Tony Shugaar. Ci hanno seguito in molti. Le comunità italiane all’estero si accorgono se c’è attenzione e affetto per loro. 

Quale consiglio darebbe a un giovane che si appresta a lasciare l’Italia per inseguire i suoi sogni o progetti professionali?

Consigli? Andare per esplorare, poi magari tornare: essere un Marco Polo, non un Montecristo. E ricordarsi che i caratteri nazionali esistono. Essere italiani può essere un vantaggio. La nostra cultura, il nostro atteggiamento verso la vita e le nostre tradizioni nazionali sono un ottimo punto di partenza, ma non bastano.  In Nord Europa, negli USA, in Asia, dovunque ormai, pretendono precisione e affidabilità, che ogni tanto sono i nostri punti deboli. Gli italiani che uniscono intuizione, empatia e rapidità di sintesi a serietà, precisione e affidabilità, spaccano! Non lo immagino: ne sono certo, perché l’ho visto. Tutti gli italiani di successo nel mondo mettono insieme queste caratteristiche.

Indro Montanelli, in una intervista televisiva, disse che non credeva nel futuro dell’Italia, ma in quello degli italiani. È d’accordo?

Il mio maestro Montanelli amava i paradossi. Io sono più ottimista. Credo che questa pandemia ci abbia insegnato qualcosa, anche come collettività.  Chi siamo diventati, noi italiani? Ci vorrà tempo per capire in che modo lo spavento e le difficoltà abbiano cambiato il carattere nazionale. Ma un cambiamento è avvenuto. Abbiamo creduto di poter risolvere ogni problema in Italia; ora sappiamo che l’Italia fa parte dell’Europa e del mondo. Abbiamo pensato di bastare a noi stessi, deriso l’autorità e l’altruismo; e sono stati quelli a portarci fuori dai guai. Abbiamo ignorato, troppo spesso, la competenza e la scienza; e quelle ci hanno salvato. Ci siamo illusi, negli ultimi anni, che il superfluo fosse fondamentale. Adesso sappiamo che non è così. 

Nel momento della difficoltà, però, abbiamo avuto il buon senso – l’istinto? – di attaccarci alle cose solide della nostra vita, alle fondamenta della nostra convivenza. E quelle, come dicevo, hanno retto anche al vento della pandemia, agli scossoni dell’economia, alle oscillazioni della politica.  Ora proviamo a ripartire, tutti insieme, con Mario Draghi. Un governo di unità nazionale! Chi l’avrebbe mai detto. Ma noi italiani non siamo prevedibili, si sa…

Oreste Foppiani

Oreste Foppiani è Visiting Research Fellow e professore associato di Storia e Politica internazionali presso il Robert Schuman Centre for Advanced Studies dello European University Institute (www.eui.eu). Ha insegnato o diretto progetti di ricerca in diversi atenei tra Ginevra, Milano, Tokyo, Washington e New York. Membro dell'Association Genevoise des Journalistes (RP Impressum) e dell'Ordine dei Giornalisti dell'Emilia-Romagna (2004-2018), è stato corrispondente permanente di Libertà presso l'Onu di Ginevra dal 2008 al 2016.

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