Brand Journalism con Serena Scarpello

Brand Journalism con Serena Scarpello

La carta stampata è in crisi. Il giornalismo in generale è sofferente nel morale e nel portafoglio. Come fare? Il web appiattisce la qualità dei contenuti poiché tutti possono produrli e pubblicarli. In questa fase di convergenza dei media verso formati online il cosiddetto Brand Journalism o giornalismo di marca conosce un discreto successo sia per la qualità sia per l’attenzione di pubblico.

Brand Journalism: di cosa si tratta?

Ne parliamo con Serena Scarpello, docente a contratto di Brand Journalism presso la School of Government della Luiss Guido Carli a Roma e giornalista professionista, head of content di MoSt, l’agenzia creativa di Studio Editoriale di Milano che cura molti progetti editoriali per conto di diversi brand. Poco tempo fa la casa editrice Guerini Next ha pubblicato il suo libro “Comunicare meno, comunicare meglio”, un’utile raccolta di punti di vista di professionisti della comunicazione aziendale sulle tendenze attuali e una carrellata delle migliori riviste aziendali che l’industria italiana ha prodotto negli ultimi decenni.

Mi può raccontare cos’è il giornalismo di marca? Come possiamo tradurre quest’espressione Brand Journalism? Sembra quasi un ossimoro. C’è qualche differenza con i pubbliredazionali?

Il Brand Journalism è in pratica la tecnica giornalistica applicata alla comunicazione d’impresa. Nacque addirittura alla fine dell’Ottocento, quando un’azienda che produce macchine agricole, la John Deere, pubblicò il primo numero di The Furrow, una rivista per gli agricoltori. Questa testata esiste ancora oggi ed è distribuita anche online. Arriva addirittura a due milioni di lettori in tutto il mondo. Da allora in poi si sono moltiplicati gli esempi.

La Guida Michelin è un altro esempio molto importante. Alcuni sostengono che addirittura la Guida Michelin sia più nota della stessa azienda e che non venga associata ai pneumatici. Era nata per informare gli automobilisti su come prendersi cura dei veicoli e per trovare un alloggio durante i loro viaggi in Francia. Poi è diventata il punto di riferimento della ristorazione mondiale. Gli esempi arrivano da lontano.

Nel mio libro ho raccontato gli esempi italiani dagli anni Trenta in poi: i grandi magazine di ENI, Pirelli, Finmeccanica fino ad arrivare ai giorni nostri. In sostanza, è come se si creasse una redazione in una azienda o a fianco di una squadra di comunicazione aziendale e si utilizzano gli stessi metodi del giornalismo.

Il racconto con l’obiettivo d’informare e diffondere cultura focalizzandosi però sui valori di un certo brand. Non si parla direttamente della marca ma dei valori in cui la marca crede. Un esempio su tutti è la rivista di Dompé, un’azienda farmaceutica, che non parlava di medicina ma di bellezza in Italia: questo era il titolo della rivista con l’obiettivo di arrivare ai medici e ai pazienti ma raccontando l’arte e l’Italia. Questo è il Brand Journalism in sintesi con qualche esempio.

La differenza con i pubbliredazionali è che intanto sono pubblicati su di un quotidiano o un mensile tradizionale e ciò dovrebbe essere fatto in modo dichiarato. L’azienda ha di fatto comprato uno spazio sulla testata e parla di se stessa, di un evento aziendale, del lancio di un prodotto, eccetera. Il Branded Content è un po’ l’evoluzione del pubbliredazionale: l’azienda che sponsorizza un torneo di tennis racconta in una rivista sportiva come si forma il talento nello sport, ad esempio. L’azienda racconta ciò in cui crede e non parla direttamente di se stessa ma lo fa attraverso altri contenuti. L’ideale è che tutti si dichiarino in quello che fanno e che ci sia trasparenza con il lettore, come mi disse Ferruccio De Bortoli nell’intervista che riporto nel mio libro.

Brand Journalism e le piattaforme on line

Perché le riviste sono un lusso? Le riviste cartacee sono sempre più preziose anche per tutto l’impegno messo nell’aspetto grafico tanto che ne fanno un’opera d’arte.

Ormai le riviste generaliste per quanto possano essere ben fatte hanno dei contenuti che troviamo molto spesso online. Le informazioni viaggiano su più piattaforme. Ci sono tantissimi contenitori. La rivista verticale da collezione che sembra quasi più un libro è un oggetto anche editorialmente prezioso. Come mi ha detto Maurizio Cattelan, quando lo intervistai per la sua rivista Toilet Paper, già il fatto di esistere rende i magazine delle opere d’arte. Io che faccio riviste per le aziende e lavoro con un editore che pubblica riviste in edicola penso anch’io lo stesso. Ha senso fare il cartaceo quando si punta ad un oggetto di alta qualità da tenere e non da buttare dopo la lettura.

Vista l’inondazione di contenuti sulla rete e sullo smartphone, come si fa a far emergere gli articoli di qualità seconda la tua esperienza?

Il mio libro nasce proprio da questa esigenza. Il titolo lo dice “Comunicare meno, comunicare meglio”. Mi sono resa conto che occupandomi di comunicazione da molti anni era diventato tutto troppo abbondante e alla fine era come se il messaggio non arrivasse. Questo è il rischio. Per fare emergere i contenuti si sceglie una comunicazione di qualità comunicando appunto poco ma il giusto e utilizzando sempre il meglio nella corredo visivo ricercando la verità. I video e le foto sono importantissimi. L’immagine è fondamentale. Una comunicazione fatta bene, pulita, un po’ allo stile Draghi che a me piace. Meno è meglio!

Tu dici nel tuo libro: “Il magazine metterà le basi per una content factory a disposizione di tutte le funzioni aziendali”. A cosa ti riferisci? Pensi anche alla comunicazione interna?

Sì, esatto. Mi sono anche occupata di house organ, di riviste aziendali per i dipendenti che possono anche essere online o cartacee o magari una piattaforma chiusa solo per i dipendenti. Funziona molto di più raccontare le storie dei dipendenti stessi e di quello che accade all’interno dell’azienda piuttosto che fare semplice autopromozione ed essere autoreferenziali.

Un progetto che ho seguito da  vicino è stato quello di Expo Milano 2015 perché in quel periodo lavoravo proprio all’interno dell’azienda dell’azienda ManpowerGroup Italia  che era partner di Expo. La comunicazione all’interno di tutto il mondo Manpower Group è stata da me guidata in questa modalità di raccontare le storie dei lavoratori assunti per Expo e dei dipendenti di altri paesi che andavano a visitare i padiglioni e le loro impressioni dall’estero. Si crea una sorta di produzione di contenuti non tanto dedicati al brand in senso stretto quanto al racconto di quello che il brand sta vivendo in quel momento.

Un modello da seguire

Sempre più aziende stanno seguendo questo modello di avere una content factory al proprio interno oppure di affidarsi ad un editore esterno. Io lavoro per Studio Editoriale che pubblica riviste di proprietà e all’interno ha un’agenzia creativa che si chiama MoSt che fa proprio questo: è una content factory per i brand. Ad esempio, Borio Mangiarotti, un’azienda di costruzioni milanese, si è affidata a noi per fare il suo magazine che nel giro di due anni è diventato una vera e propria rivista di architettura distribuita in edicola e in libreria. Quando davvero la rivista non parla del brand ma vuole solo diffondere cultura diventa interessante per quel tipo di pubblico di architetti, studenti di urbanistica e di chi vuole seguire l’attualità delle città.

Francesco Guidara, Direttore Marketing di The Boston Consulting Group Italia, Grecia e Turchia da te intervistato nel tuo libro dice: “Oggi FIAT assume giornalisti e prende da Wired il suo editor-in-chief. Procter & Gamble e Unilever possono essere i prossimi editori.” Allora da un lato mi sembra una cosa preoccupante, dall’altro lato mi dico che casomai possono nascere delle nuove Guide Michelin o altre pubblicazioni di qualità. Non ne viene certo fuori un giornalismo civico di stile cane da guardia. Cosa ne pensi?

Sì, sicuramente è un giornalismo diverso. E’ un giornalismo un po’ di lusso con un approfondimento da parte di un’azienda che non ha l’obiettivo di vendere copie. L’unico obiettivo di diffondere cultura è la cosa più bella che possa capitare a un giornalista. Hai carta bianca e risorse per fare delle cose belle. I media tradizionali stanno più dietro alla notizia anche in modo frettoloso. Sono due cose diverse. E’ vero che il giornalismo oggi viaggia anche sulle reti sociali. Durante la pandemia abbiamo visto medici girare filmati all’interno degli ospedali. E’ un giornalismo che per forza di cosa è cambiato e viaggia molto più velocemente. La rivista aziendale è invece una rivista di approfondimento con un intervento, ad esempio, di un premio Nobel che scrive un pezzo di 10’000 battute o il grande fotografo che collabora con il magazine di Pirelli, World, che curiamo insieme all’azienda. E’ talmente bello che non trovo nulla di paragonabile in edicola oggi.

Un giornalismo diverso

A chi vanno i magazine aziendali di cui ti occupi? Ai clienti?

La maggioranza è distribuito nella rete aziendale quindi i propri clienti, i fornitori. Altri come, ad esempio, Urbano dell’azienda di costruzioni Borio Mangiarotti a cui accennavo prima, adesso va anche in edicola e in libreria e c’è anche un e-commerce in cui il lettore può ordinarlo.

Di solito avete pubblicità di altre aziende? Può capitare?

Sì, può capitare. Gestiamo anche un magazine per la fiera Vicenzaoro. VO+ è la rivista di proprietà di Vicenzaoro, un magazine verticale che parla a tutta l’industria, italiana e internazionale, uscendo fuori dal perimetro fieristico e rimanendo indipendente nella selezione dei contenuti. E’ un magazine storico che esiste da oltre trent’anni. In questo caso ci occupiamo anche della raccolta pubblicitaria e quel magazine va anche in edicola oltre la rete della fiera. Quando la rivista diventa matura al punto da poter interessare un pubblico più vasto, allora arriva nelle edicole. Diventa un vero e proprio magazine con degli spazi pubblicitari. Fermo restando che comunque l’obiettivo più alto è diffondere cultura e spesso al brand non interessa includere pubblicità propria o di altri nella rivista.

Come vedi la professione di giornalista? Ci sono sbocchi in questo tipo di giornalismo aziendale?

Guarda io insegno da qualche anno in un master della Luiss a Roma proprio Brand Journalism. Vedo che gli studenti sono spesso giornalisti che lavorano in quotidiani e che vogliono cambiare. Vogliono passare dall’altra parte. Recentemente ho seguito due tesi di laurea su due casi di brand magazine inventati: uno su Missoni e l’altro sull’azienda farmaceutica Menarini. In entrambi i casi gli studenti sono interessati a questo tipo di giornalismo che ruota attorno al mondo di una marca. C’è più spazio. Ci sono più risorse ed è diverso da quei contenuti effimeri che vediamo nelle reti sociali come la notizia sul sito online o il giornalismo minuto per minuto.

Sai quando uno dice giornalismo è un po’ come quando dici medicina. Hai il cardiologo, il dermatologo, eccetera. Questo tipo di giornalismo di marca è bellissimo. Anch’io l’ho visto e l’ho fatto. E’ la tecnica giornalistica applicata a tutto l’universo di una marca. Quindi ci possono essere anche articoli piacevoli e interessanti. Però ecco io non mi aspetto che il giornalismo civico arrivi dalla Procter & Gamble. Se la Procter lancia sul mercato un prodotto che si rivela essere tossico per esempio perché ci sono stati degli illeciti all’interno dell’azienda, non mi aspetto che sia questo tipo di editore a scrivere nell’interesse dei cittadini e dei consumatori in modo indipendente e veritiero con  un giornalismo come quello de Il Fatto Quotidiano che in Italia è più unico che raro. Infatti sono una sorta di cooperativa di giornalisti editori di se stessi. 

Michele Caracciolo

Giornalista professionista, bocconiano, ha lavorato nell’ufficio stampa di una multinazionale. Dal 2014 è partner dell’agenzia di relazioni pubbliche CRP specializzata in clienti industriali a Ginevra. Abita tra Ginevra e Milano e ha collaborato con la redazione milanese dell’AFP (Agence France Presse – Class Editori), con La Stampa e Il Giornale scrivendo di sport e di viaggi. E’ membro dell’Advisory Board della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera ed è docente a contratto di comunicazione d’impresa presso l'IFM Business School"

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